Seleziona una pagina

Alla propria chiesa si obbedisce sempre quando è Chiesa. Verso i suoi dogma ci si pone in condizione di assoluta accettazione. E di rispetto nei confronti delle autorità religiose. Da cattolico quasi ordinato praticante, la Chiesa di Francesco mi piace. In particolare, per il suo spirito di apertura al mondo intero.

Uno spirito che va addirittura oltre quello dell’ultimo Concilio. Quello di Roncalli-Montini, Giovanni XXIII e Paolo VI, i papi del grande cambiamento della Chiesa. Concilio finora non pienamente attuato. Specialmente in quella parte “teologica sul sociale” (mi permetto di darle questa denominazione), che Francesco ha ripreso facendone strumento di dialogo con religioni e culture molteplici e diverse e, nel contempo, tema di profonda interrogazione interna, sul ruolo che la Chiesa di Roma deve svolgere oggi e nel futuro. Vi ricordate le prime parole di Bergoglio dopo l’elezione a Papa? Queste, testuali, anche se le riporto a memoria, la mia, che da un po’ pure vacilla. “Per scegliere il nuovo Vescovo di Roma, i colleghi Cardinali sono andati a prenderlo alla fine del mondo”. Ecco, il suo primo atto di cambiamento profondo. È in quelle poche parole, nella concezione che Egli ha anche del valore delle parole, quando veicolano la Parola.

Il Vangelo è anche Parola e le parole di chi lo porta nelle vie. I suoi gesti concreti, sono anche le espressioni verbali, che vengono espresse. Parola e parole, insieme per comunicare il Vangelo come messaggio di speranza. Come strumento di sommovimento tellurico delle coscienze e di ricostruzione del mondo nuovo. Le altre parole, alla prima uscita dopo l’affaccio dallo storico balcone. Mi ricordo bene anche queste. Le ha pronunciate nella imponente sala Nervi. “Io voglio una Chiesa povera. Una Chiesa per i poveri.” Poche volte nella storia dei leader mondiali, si è potuto ascoltare un programma tanto completo e tanto “rivoluzionario” concentrato in sole cinque parole. A cui si aggiunge quella del nome che Bergoglio si è dato, Francesco. Solo cinque semplici ed elementari parole. E quella. In esse c’è tutto. Il nuovo pensiero da quello Conciliare. Un nuovo programma “pastorale” dai principi fermi della Dottrina e della Teologia. C’è il coraggio e la coerenza. La promessa e l’impegno. C’è il primo passo sulla strada un po’ dimenticata. Una strada, viottolo o sterrato, in salita o in discesa ripide, anche difficile da ritrovare per un uomo che non si chiamasse Giorgio Bergoglio, nel quale probabilmente si muovevano la natura meridionale di ogni sud del pianeta.

Il carattere italiano dei genitori e dei nonni, il sangue caldo e di passione degli argentini. Cosa conteneva quel manifesto di cinque, parole con la sesta? La prima, Vescovo, “detronizzare” il Papa. Farlo scendere dal trono di potere sul quale una Chiesa preconciliare l’aveva assiso, rivestendolo di paramenti d’oro e di simboli di potenza “divina”. Il Papa eletto dai “colleghi” cardinali, una sorta di parità, nella confermata indiscutibile autorità del primo tra i vescovi. Parità tra discepoli, gli apostoli, nell’unica centralità condivisa, Gesù Cristo, il Messia, il Salvatore, il primo figlio di Dio. La Centralità della Chiesa e del suo Pontefice, è lo strumento di quella prima centralità assoluta, operante nel mondo per salvare gli uomini, tutti uguali, nel progetto d’Amore annunciato da Betlemme fino al Golgota e alla meraviglia del Santo Sepolcro in Gerusalemme. Parola: “l’hanno preso da molto lontano”. La Chiesa riparte dalle periferie del pianeta. Da una regione povera. Da un pezzo di terra che ne rappresenta molte, uguali nella sofferenza e nelle paure. E nella ricerca della speranza perduta. Il Vescovo di Roma si impegnava a restare il Vescovo di Buenos Aires. Il prete, che, dalla lotta contro le dittature, l’oppressione più brutale della dignità umana, incontrava quotidianamente gli ultimi delle favelas. Francesco, il nome che collega le parole dei due momenti, il Balcone di piazza San Pietro e la Sala Nervi. Un Vescovo povero per i poveri, per mezzo della Chiesa dei e per i poveri. E i poveri non sono un concetto astratto, una figura della letteratura romantica. Non sono quelli della simbologia richiamata su un passivo sentimento di dispiacere, rimovibile facilmente guardando da un’altra parte. I poveri non sono un acceso elemento ideologico. Sono esseri umani sempre più numerosi, ormai a miliardi, che non possiedono nulla se non il dolore di un’ingiustizia assurda che si è abbattuta su di loro, per colpa di una società egoistica e disumana. Una società nella quale i ricchi sono pochi e sempre più ricchi, e i poveri sempre più numerosi e più poveri. Da qui la povertà più estesa, che riguarda tutti. In particolare, gli egoisti e i prepotenti. È la povertà dei sentimenti, il progressivo impoverimento dei valori. La cecità dell’anima. La stupidità dell’intelligenza di chi si sente superiore. E per questo presuntuoso sentirsi si arma, consumando risorse preziose, per fare le guerre distruttive di vite e di civiltà. Come dei campi di grano, dei ponti, delle scuole e delle Città intere.

Quelle risorse bruciate nelle armi, con solo la metà, debellerebbero la fame in gran parte delle regioni colpite dalla povertà estrema. Sommate per tutte le guerre di questi ultimi vent’anni, risanerebbero le terre dell’arsura, ricostruirebbero quelle bombardate, creerebbero sviluppo dove non c’è e il Progresso, questo sì, davvero globale. E, come dalle parole di Gesù, la Pace. Quella vera. Che nasce dalla Giustizia. Dalla Carità. Dalla libertà. E queste, tutte, dall’Amore. Qui, sulla terra, come unica strada per incontrare Dio. Che è Amore puro. I poveri vanno incontrati. E di persona. Raggiunti nei luoghi in cui si trovano. Siano essi paesi lontani o vicini, Città piccole e grandi. I poveri non hanno sempre la forza, né morale, né fisica, di recarsi in chiesa. Non hanno la spinta psicologia per cercarne una, fisicamente quasi sempre lontana dalle periferie in cui essi vivono respinti e isolati. Nostro dovere, obbligo di chi si porge loro, è andare. Viandanti della Parola. Cercatori di luce. Guidati da quella Stella, che anche noi, come i Magi, possiamo vedere da lontano.

Essere pellegrini oggi, per Francesco è questo. Andare verso, incontrare chi non “cammina”, uno per uno, chinarsi su di loro per vederli in viso, inginocchiarsi, come nella preghiera. E rialzarsi insieme a ciascuno di loro. Abbracciati. Essere pellegrini di Speranza. Portatori dell’antico messaggio di salvezza. Ma chiarendolo, con più forza. La speranza non è fissità di un’attesa. Non è contemplazione sterile di un qualcosa che non ci sarà. Non è momentaneo risollevarsi dalla disperazione. Non è un battito di cuore più accelerato, che schiuda le labbra a un debole sorriso. La speranza cristiana è quella che rinnova e trasforma l’uomo. Lo chiama a essere protagonista del cambiamento, attore, insieme con gli altri, delle più grandi trasformazioni in senso umano del mondo. La speranza è forza di credere in sé stessi, nella bellezza di essere figli di Dio. Di quel Dio, che si è fatto uomo, non solo per salvarci. Ma per indicarci il coraggio di aiutarci, noi qui, l’uno con l’altro. Senza condizioni e limiti. E a salvarci con le nostre umane forze. La speranza, che è progetto di Pace nella giustizia. Per tutti. Nessuno escluso. Ché, come ci insegna Gesù, non c’è festa senza il figlio perdutosi. Non c’è gregge senza l’agnello che non ce la fa a stare con gli altri. Non c’è ricchezza, se non è per tutti. Francesco di questo nuovo pellegrino ci dice: “La nostra vita è un grande pellegrinaggio: gli amori, gli affetti, le sofferenze, ogni sforzo e fatica, insieme a tutti gli incontri che facciamo, ci dicono che non camminiamo da soli e che tra i nostri compagni di viaggio c’è il povero, il bisognoso, ma anche Dio che si nasconde nel cuore di ciascuno di noi e ci assicura la sua benedizione.

La nostra vita è un grande pellegrinaggio: gli amori, gli affetti, le sofferenze, ogni sforzo e fatica, insieme a tutti gli incontri che facciamo, ci dicono che non camminiamo da soli e che tra i nostri compagni di viaggio c’è il povero, il bisognoso, ma anche Dio che si nasconde nel cuore di ciascuno di noi e ci assicura la sua benedizione.” Il Giubileo, da Lui indetto, è qui. In questo significato. Al quale aggiunge la parola chiave: “Ricominciare.” Il Giubileo, infatti, è “un nuovo inizio, la possibilità per tutti di ripartire da Dio.” Col Giubileo, per Francesco, si incomincia una nuova vita, una nuova tappa. E per tutti. Per i credenti, è in quella parte in cui ricominciare significa ripartire dal Vangelo e da una Chiesa che ne sia coerente interprete, la Chiesa povera. La Chiesa aperta. Sulle strade del mondo. Per tutti. E, quindi, per i non credenti, atei compresi, ricominciare dall’uomo, dalla sua bellezza. Per ricostruire una società profondamente umana, in cui la vita, umana e della natura, siano i beni da difendere e valorizzare tutti i giorni.

ùIl Giubileo della Speranza, mette in cammino ciascun essere umano, affinché sia degno cittadino del mondo. Il Giubileo del pellegrino ci condurrà, presi per mano da Francesco, in quel deserto fiorito, bagnato dal mare più limpido e accogliente, e dall’alto guardato dai monti più gentili, dove ci troveremo tutti insieme felici. Che bello sarà quel giorno da questa promessa nuova! Speranza di vita vera.

Franco Cimino

Scopri di più sul Mosaico e su

Fondazione Città Solidale Onlus

Visita il nostro sito www.fondazionecittasolidale.it

Vai