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Il 25 marzo 1995 papa san Giovanni Paolo II firma la sua undicesima enciclica, “Evangelium Vitae“ che, come lui stesso afferma, “vuole essere una solenne riaffermazione precisa e ferma sul valore della vita umana, che è degna di rispetto e inviolabile per ciò che è, e non per la sua utilità, e in qualsiasi situazione di vita” (EV, 5). “Alle antiche dolorose piaghe della miseria, della fame, delle malattie endemiche, della violenza e delle guerre – scriveva – se ne aggiungono altre, dalle modalità inedite e dalle dimensioni inquietanti (…) ogni specie di omicidio, il genocidio, l’aborto, l’eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che vìola l’integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente; tutte queste cose, e altre simili – ribadiva il Papa – sono certamente vergognose (…) e ledono grandemente l’onore del Creatore” (EV,3).  Quando si ricorda nella Evangelium Vitae, la domanda del Signore a Caino: “Che hai fatto? La voce del sangue di un fratello grida a me dal suolo!” (Gn 4,10), che apre il primo capitolo, questa domanda è rivolta ora all’uomo contemporaneo affinché prenda coscienza dell’ampiezza e della gravità degli attentati alla vita da cui continua ad essere segnata la storia dell’umanità. Si tratta di un genere particolare di attentati, concernenti la vita nascente e la fase terminale della vita terrena, attentati che presentano caratteri nuovi rispetto al passato e sollevano problemi che richiedono anche la necessità di una riflessione critica nell’ambito del mondo della medicina. Nei confronti della medicina l’Enciclica costituisce di fatto una denuncia:

 in primis della stessa contraddizione dell’atteggiamento umano verso la medicina: da una parte le si chiedono continui progressi terapeutici per una ideale salute fisica e la guarigione di tutte le patologie, dall’altra si chiede alla stessa medicina, in taluni casi, di arrecare la morte. Ma poi anche una denuncia della stessa medicina, poiché, da questa, non si sente spesso una generalizzata difesa della vita nascente, dell’uomo anziano e del malato nella fase terminale della malattia, una difesa che pur è una componente della sua ragione d’essere. Si sottolinea così nell’Enciclica che la medicina, che per sua vocazione è ordinata alla difesa e alla cura della vita umana (DH87ita.) (Dolentium Hominum n. 87), si presta sempre più largamente a realizzare atti contro la persona e in tal modo deforma il suo volto, contraddice se stessa e avvilisce la dignità di quanti la esercitano (EV, 4). A queste contraddizioni si accompagna una lettura realistica delle difficoltà di una difesa della vita, perché si afferma che questa deve realizzarsi in un mondo che annovera una cultura, definita una “cultura di morte”, con caratteri specifici, in un momento sociale segnato da una crisi culturale che ha le sue note dominanti nel materialismo e nell’individualismo.

 L’Enciclica si articola secondo le note fasi del comportamento umano e del discernimento evangelico: vedere, giudicare, agire.

Vedere è precisamente conoscere la realtà come è ed è quando si presenta il panorama delle minacce contro la vita;

 giudicare: discernere non è soltanto conoscere, ma interpretare la realtà, comprenderla. Questo è possibile fino ad un certo punto con la luce della ragione, ma ci si può riuscire in pieno soltanto con la luce della Parola di Dio che illumina la ragione dell’uomo;

 agire: il discernimento vero non si limita a rimanere in idee, decide, agisce. Questa azione viene presentata nell’Enciclica in due fasi: una più dottrinale, l’altra più pastorale.

 Si può affermare che la vera unità della Evangelium Vitae è nel taglio positivo e costruttivo. La condanna della contraccezione, dell’aborto, della fecondazione artificiale, della manipolazione genetica, dell’eutanasia riprende la dottrina tradizionale e l’insegnamento del Magistero della Chiesa e lo riprende con particolare ampiezza, accompagnando la sua condanna con l’illustrazione di indicazioni e di direttive di valore umano e pastorale e specificando tutti gli strumenti idonei e promuovere una nuova cultura della vita capace di arginare e sconfiggere la “cultura della morte”.

Alla attuale cultura così definita, il Papa oppone una cultura della vita fondata sull’orizzonte teologico della speranza. Ciò che la Chiesa vuol salvare non è la vita di ogni persona, ma il concetto stesso di persona. Una cultura della vita che nella sua antropologia ha un concetto della dignità dell’uomo, considerato nella sua spiritualizzata corporeità, nel suo concreto sviluppo e nel suo destino soprannaturale. Quella prospettiva che è propria della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo, Gaudium et Spes, quando si ricorda che l’uomo è il centro di ogni discussione, un uomo nell’unità di corpo e anima, di cuore e coscienza, di intelletto e volontà. Nell’Enciclica, come si è detto, i pronunciamenti magisteriali concernenti gli aspetti bioetici della vita nascente, la grave immoralità dell’aborto e dell’eutanasia, sono letti anche alla luce di quanto la Sacra Scrittura afferma in proposito. D’altra parte la vita è il problema dell’uomo, dall’inizio della sua esistenza fino alla sua morte e la Bibbia è l’illustrazione dei problemi dell’uomo visti alla luce di Dio. Essa è perciò dall’inizio al termine un discorso sulla vita, e l’Enciclica insiste molto sull’armonia fra i due Testamenti per quanto concerne la dottrina della vita e tiene conto dell’evoluzione di questa dottrina, leggendo l’insieme del messaggio biblico alla luce del Cristo-Vita per il mondo. Nell’uso che papa San Giovanni Paolo II fa delle Scritture per rafforzare la dottrina esposta nell’Enciclica, si può rilevare quella intenzione specificamente biblica, presente in tutte le pratiche pastorali del Signore Gesù.

Si può allora affermare che l’Enciclica Evangelium Vitae propone alla pastorale di svolgere pienamente il ruolo redentivo indicato dal Concilio Vaticano II e che ora si può definire quello del Buon Samaritano che fascia le ferite dell’uomo lasciato mezzo morto da una cultura che minaccia sempre più la persona. Per tutto quanto detto, si può leggere allora l’Evangelium Vitae come il manifesto programmatico della Teologia pastorale sanitaria, poiché presenta una società malata, un uomo e una donna malati e sullo sfondo tanta sofferenza umana. La Teologia Pastorale Sanitaria ruota in buona misura attorno ad una insostituibile trilogia: gli “eventi fondamentali dell’esistenza umana” (nascita, vita, salute, malattia, sofferenza, morte) l’ambito socio-culturale e sanitario in cui si sviluppano, e gli operatori sanitari (termine molto ampio che comprende la famiglia, la scuola, i professionisti, i pastori, la comunità cristiana, ecc.) i quali vi attuano il disegno salvifico e salutare di Dio. Gli eventi fondamentali dell’esistenza umana sono profondamente radicati nella persona e nella comunità, sono al centro della storia della salvezza, oggetto del piano di salvezza e quindi imprescindibili per la comprensione del mistero di Cristo e della Chiesa. Essi sono anche oggetto della prassi pastorale ed etica e “luogo” di evangelizzazione. Oggi siamo dentro un’etica elastica, o meglio, rispetto all’analisi che ne faceva l’Enciclica più di vent’anni fa, la cosa si è ulteriormente raffinata. È il cosiddetto relativismo etico: “che male c’è?”, “la scienza promette…”, e dentro questo relativismo etico ognuno si sente libero di poter effettuare qualsiasi esperimento. Una seconda “elasticità dell’etica” è la cosiddetta “buona pietà”. Anticamera, se non sinonimo, di eutanasia. Ma la buona pietà non è eliminare un malato, bensì aiutarlo a valorizzare quel momento lì, esistenziale, drammatico: che è la domanda sulla morte. Chi è stato vicino a un malato conosce quest’esperienza.  Una terza elasticità dell’etica deriva dall’orientamento dato dalla legge umana (dalla legge civile) alle scelte etiche e morali. La legge umana è entrata a gamba tesa, definendo nuove condizioni. Si applica l’idea per cui ciò che è legale sia per ciò stesso anche morale. Molte persone non si interrogano più se una cosa sia eticamente negativa, in quanto ammessa dalla legge civile. San Tommaso dice che “Quando invece una legge è in contrasto con la retta ragione, la si denomina legge iniqua; in tal caso però cessa di essere legge e diviene piuttosto un atto di violenza” (Summa Theologiae, I-II, q. 93, a. 3, ad 2um, citato in EV 72); questa non è legge, bensì corruzione di legge. L’argomento legge civile e legge morale trova ampia trattazione nell’Enciclica, dal n. 68 in poi. Il Papa, quando ne parla, mette sempre come riferimento anche la Parola di Dio, a partire dalla citazione di Atti degli Apostoli 5,29 “Bisogna obbedire a Dio piuttosto che agli uomini”.  Sappiamo che questa è la risposta di Pietro al Sinedrio, quando volevano imporre a lui e agli altri apostoli di non insegnare più nel nome di Cristo. Già vent’anni fa circolava insistente una sorta di giustificazione giuridica o di legittimazione giuridica degli attentati alla vita, con diverse motivazioni addotte a sostegno. Questo dimostra che c’è qualcosa (una domanda etica?, una coscienza? Che dobbiamo intercettare e che non dipende da una legge civile codificata. Esiste poi una sorta di relativismo generato dall’apparente potere totalitario della democrazia: ma “la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità. Fondamentalmente, essa è un «ordinamento» e, come tale, uno strumento e non un fine” (EV 70). La maggioranza di opinioni non dà forza etica o morale ad una azione, non esiste l’equivalenza che ciò che è legale è morale; o, secondo altri, è pensiero comune che qualcosa sia lecito perché molti altri la penserebbero così. Ancora una volta porto come esempio un paradosso: non è detto che perché la maggioranza ritiene che sia lecito rubare ciò sia “giusto”, sia “bene”… quindi facciamolo. Rubare resterebbe una azione negativa, anche se appunto paradossalmente una legge civile o uno Stato lo permettesse.

Un orizzonte che ci deve vedere non mortificati ma sereni, perché come cristiani annunciamo la gioia, che riesce a convincere, non cristiani che vogliono imprigionare la vita nel male. – Da ultimo, l’orizzonte del samaritano, che non è una parabola per i buonisti. È una parabola per tutti noi. È quella del “farsi carico”. Il samaritano vive otto intensissimi verbi; verbi che l’uomo del tempio, e il suo sagrestano, nemmeno conoscevano. Talvolta siamo saccenti, mentre per capire le sofferenze delle persone occorre “starci”, “farsi carico”. Quando ci si accosta ad un malato non bisogna chiedere “come stai”. È evidente che non sta bene, se è lì! La prospettiva del Samaritano è un’altra, sono tutti verbi “attivi”. È possibile approfondire ora alcuni passaggi dell’enciclica nella prospettiva del “senza nascondersi”.

  1. a) La dimensione cristologica di Evangelium Vita : tutta l’enciclica è sviluppata  nella contemplazione di Cristo e del suo mistero. Già lo schema complessivo del documento mostra con evidenza – nel succedersi dei titoli – questo forte impianto teologico: il primo capitolo “La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo: le attuali minacce alla vita umana”, poi seguono “Sono venuto perché abbiano la vita: il messaggio cristiano sulla vita”, “Non uccidere: la legge santa di Dio”, e infine “L’avete fatto a me: per una nuova cultura della vita umana”. Come si percepisce la Evangelium Vitae non è un documento-prontuario per rimuovere o rimarcare le offese alla vita sul versante “medico” o “clinico”, bensì è un documento-progetto di come accogliere – custodire – servire – orientare la vita celebrandola come dono e riconsegnandola a Dio arricchita di bene. La vita di ogni uomo trova in Cristo la sua pienezza, e non potrebbe essere altrimenti. Questo è lo specifico cristiano, il “nostro specifico”; dare a questa vita l’orientamento progettuale, la vita come dono.
  2. b) Il valore teologico-culturale di ciascun capitolo È possibile leggere all’interno di ciascun capitolo dell’enciclica uno specifico teologico – culturale. È possibile rilevarne alcuni tratti salienti:

Cap. I – Il primo capitolo si snoda “Dal sangue di Abele al sangue di Cristo”.  Il sangue di Abele è frutto di un cedimento alla logica del maligno ed è il rifiuto di vivere quella responsabilità che ogni uomo ha verso l’altro (EV 8). La domanda di Dio a Caino “che cosa hai fatto?” di Genesi 4, 10 diventa la domanda attuale che svela l’eclisse di Dio e del valore della vita, ma allo stesso tempo invita a prendere coscienza di quanto male si faccia alla vita. La domanda, poi, lascia comunque aperta una possibilità di dialogo. Occorre far circolare questa domanda “che hai fatto?”. Ma questa domanda va formulata, va detta, come la dice Dio, per far pensare, non per condannare. Perché nessuno di noi può pensare di entrare “dentro la coscienza” di questa o di quella persona. Tanto più in un mondo disorientato come l’attuale quadro pandemico delineatasi in questo nostro tempo storico e “spazio teologico”. Questa domanda ci apre all’incontro, con una persona viva! Ecco Cristo! Che muore, e il suo sangue è sangue dell’aspersione, della purificazione, il suo sangue è sangue della misericordia e della vita, è sangue dell’amore e della donazione di vita, sangue della speranza e dei segni di crescita della coscienza personale e sociale circa il valore e la difesa della vita (cfr. EV 25). Sono tutti segni di vita, di speranza, operanti nella Chiesa oggi, segni che sono un benefico cuneo che rompe la durezza del cuore e della mente di questa cultura. Ciascuno di noi, peraltro, è anche già testimone di tanti piccoli segni di vita positivi che messi insieme diventano un segno grande e significativo.

 Cap. II – “sono venuto perché abbiano la vita” Lo definirei il capitolo che passa dalla precarietà della vita (volevano infatti ucciderlo…) alla affermazione del suo valore; dalla precarietà dell’esistere alla affermazione del valore dell’esistere. È sconvolgente vedere e leggere come anche la vita umana del Figlio di Dio sia stata minacciata (nel Vangelo troviamo più volte espressa l’intenzione di prendere Gesù per ucciderlo, ed alla fine ciò è accaduto), e come poi dalla Sua vita nasca la salvezza per l’intera umanità (Lc 2, 11). La stessa vita donata di Cristo è germe di esistenza che va oltre i limiti stessi del tempo. L’umanità di oggi è chiamata a smettere di accanirsi sempre ad uccidere: deve una buona volta inginocchiarsi davanti alle offese alla vita, perché solo se si inginocchia capirà! La vita di Gesù è paradigma per la nostra: essa esprime la cura e la sollecitudine amorosa di Dio Padre nei confronti delle sue creature. Gesù pone la Sua vita in Dio e la consegna a Dio Padre (Gv 19, 30). Possiamo rilevare quanto sia utile pastoralmente rintracciare i segni della fecondità della nostra esperienza umana, di questa consegna della vita al Padre.

 Cap. III – Il terzo capitolo è il “non uccidere”. La signoria “ministeriale” dell’uomo sulla vita si realizza nell’obbedienza alla legge di Dio. Viene illustrata tutta una teoria di crimini nei confronti della vita:   dall’aborto alla eutanasia, interventi sugli embrioni, e molto altro. E in vent’anni altri se ne sono aggiunti. Vorrei però rilevare la sottolineatura che viene riservata nella Evangelium Vitae ai precetti morali negativi, “quelli che dichiarano moralmente inaccettabile la scelta di una azione ben determinata”. “Non uccidere” e “non rubare” è un valore morale espresso al negativo, ma è fortemente condizionante. Essi, se capiti, sono la prima tappa del cammino di libertà. “La prima libertà consiste – dice sant’Agostino – nell’essere esenti da crimini… come sarebbero l’omicidio, l’adulterio, la fornicazione, il furto, la frode, il sacrilegio; quando uno comincia a non avere questi crimini, e nessun cristiano deve averli, comincia a levare il capo verso la libertà, ma questo non è che l’inizio della libertà, non la libertà perfetta” (Agostino d’Ippona, Commento al Vangelo di Giovanni, Omelia 41, 10). Ci sono oggi in giro molte di queste prigionie, ed anche l’offesa alla vita è una prigionia dell’umano. Nell’amore del prossimo c’è invece molto di più: la promozione della vita.

Cap. IV – L’ultimo capitolo porta per titolo la bellissima espressione “L’avete fatto a me”. Si può entrare nel tema con la domanda che san Giovanni Paolo II attinge da san Giovanni Crisostomo: “Vuoi onorare il corpo di Cristo? Non trascurarlo quando si trova nudo.” (EV 87). La carità trova sempre modalità opportune di vicinanza e solidarietà. Sempre, “l’avete fatto a me!”. Vent’anni fa il papa sottolineava tre aspetti che oggi si sono ampliati, moltiplicati per intensità e complessità; e a questi tre papa Francesco aggiungerebbe “gli scarti”. I tre aspetti di cui parla papa Giovanni Paolo II sono: gli anziani, le cure palliative, il volontariato. Non mi sento autorizzato a spiegare il “come” “l’avete fatto a me”, ma sottolineo un aspetto soprattutto per i medici e gli operatori che spesso davanti a loro hanno il corpo di Cristo nudo. Non abbiate fretta, fermatevi, celebrate la vostra professione come una adorazione di Cristo, perché noi abbiamo la fede che nel corpo dell’uomo, nel corpo dell’uomo “nudo”, Cristo è presente. Abbiate il coraggio di fermarvi, e credo che questo sia un elemento da riportare nella struttura in cui professionalmente o pastoralmente operiamo, nella modalità di stare vicino. Perché anche davanti ad una ecografia con l’ipotesi di un figlio non perfetto – ma occorrerebbe ricordare che nessuno è perfetto – se si apre un dialogo di pazienza, se si aprono prospettive di speranza, la vita la salviamo. Un secondo sguardo fondamentale è la signoria speciale della famiglia come santuario della vita (EV 92-94) e lo sguardo sulla famiglia; è fattore educativo insostituibile per formare una coscienza morale.

Conclusioni: Mi piace la conclusione dell’Enciclica, e la faccio mia: è il riconoscere la nobiltà della donna. In Maria – una donna – il Bambino ci è stato dato.  Il secondo accento con cui concludo è semplice ma profondo: la vita è la buona notizia. La vita (il figlio che nasce, ogni figlio) è sorgente di letizia, in sé, per i suoi familiari, per l’intera comunità, civile ed ecclesiale. Ma non va dimenticato che siamo costituiti dentro il duello pasquale: tra la morte e la vita. La morte e la vita, e questo duello continua, e sta a noi, con la testimonianza e con il servizio, proclamare ciò che celebriamo nella liturgia: che il Signore della vita era morto ma ora, vivo, trionfa. Considerato che la teologia pastorale è la riflessione sistematica sulle condizioni per la realizzazione di questo compito da parte della Chiesa, qui e adesso, dentro ai processi storici, al vissuto concreto delle persone, alle loro interazioni e in risposta ai loro problemi e alle loro domande, la Teologia pastorale sanitaria significa cercare di portare la Parola di guarigione di Dio a un uomo sofferente, ma anche ad un mondo socio-sanitario malato e ad un uomo che può essere anche una vittima di questo mondo e lo può fare attraverso una pastorale della vita, della salute e della sofferenza. La pastorale della vita deve prendere in carico il tema dell’accoglienza, del rispetto, della difesa e della promozione della vita umana, proprio per tutte le considerazioni della Evangelium Vitae. D’altra parte l’etica non si limita a descrivere una situazione, ma si caratterizza per la sua proposizione di valori normativi e obbliganti. In altri termini, il compito dell’etica non è di dire ciò che la gente “fa”: dunque i costumi in atto, oppure quei valori che come tali sono sentiti e vissuti; ma è di dire ciò che la gente “dovrebbe fare”, anche se non lo fa o potrebbe non farlo. Ciò suppone che si accetti l’esistenza di valori oggettivi, universali e immutabili cioè fondati sulla realtà come tale (nel nostro caso della persona come tale), e pertanto estesi nello spazio e nel tempo esattamente come è estesa la realtà come tale. E il credente ha la possibilità e la responsabilità di interpretare la realtà facendo riferimento a una ragione illuminata dalla fede, in ascolto quindi della Parola rivelante di Dio. L’interpretazione in chiave di salute del messaggio della salvezza affonda le sue radici nel mistero stesso di Cristo, e in modo particolare nella sua azione terapeutica in favore dei malati e dei cosiddetti “sani” del suo tempo. Nella storia della salvezza, soprattutto nel Nuovo Testamento, l’azione terapeutica di Dio non mette in rilievo la malattia quanto piuttosto la salute. Il mondo della salute, della malattia, della sofferenza appare così un “luogo privilegiato” della pedagogia salvifica di Dio. La salute è sempre legata alla salvezza (di cui è segno, manifestazione, anticipo) e diventa un vero “luogo teologico” per la comprensione della storia della salvezza. In Cristo, oltre ad adempiere in modo esemplare le note che identificano il soggetto della salute, è stato rivelato l’itinerario che la salute umana, contemplata dalla prospettiva del suo soggetto, è chiamata a percorrere. A partire dall’Incarnazione, Cristo diventa il gran simbolo del percorso salutare dell’essere in questo mondo. Alla luce di questo mistero si può affermare che il primo atto della salute consiste nell’accogliere la vita, ricevuta dunque come dono e come missione. Essa si realizza ponendo a disposizione dei malati e di quanti se ne prendono cura, l’apporto di una calda umanità e gli strumenti della grazia, promuovendo e difendendo la vita e la salute, sensibilizzando la gente ai problemi e ai bisogni di chi soffre, accompagnando gli uomini nella ricerca di risposte ai grandi interrogativi posti dal vivere, soffrire e morire. La Chiesa che nasce dal mistero della redenzione di Cristo è tenuta a cercare l’incontro con l’uomo in modo particolare sulla via della sofferenza. In questo incontro l’uomo “diventa la via della Chiesa”, ed è questa una delle vie più importanti. Se si è affermato in precedenza che l’Evangelium Vitae sia il Buon Samaritano che fascia le ferite dell’uomo colpito dalla cultura della morte, ora la pastorale sanitaria è il Buon Samaritano che fascia le ferite dell’uomo lasciato ferito sulla strada della vita. Ci si può però chiedere ora se esiste un uomo non sofferente. Il Dio biblico è ritratto con i lineamenti e le caratteristiche di un medico, il medico di tutte le infermità. Egli, infatti, “risana i cuori affranti e fascia le loro ferite” (Sal 147,3) e si rivolge all’uomo con queste parole: “La tua ferita è incurabile, la tua piaga è molto grave. Per la tua piaga non ci sono rimedi, non si riesce a cicatrizzarla […] Sarò io che farò cicatrizzare la tua ferita e ti guarirò le tue piaghe” (Ger 30,12-13. 17). Accanto a lui, nella gloria, poi Cristo le cui mani sono spesso posate su corpi malati. La letteratura patristica ha attribuito a Cristo il titolo di “Christus medicus”, medico del corpo e dello spirito, quasi a conferma della considerazione di ogni uomo come sofferente. Il Concilio Vaticano II riprende questo titolo nella Costituzione sulla Sacra Liturgia (SC,n. 5),  affermando che il Cristo è stato inviato a “evangelizzare i poveri e a guarire i contriti di cuore” ( Is 61,1; Lc 4,18), come medico corporale e spirituale. Questa sofferenza, poi, dovrebbe essere anche un elemento della solidarietà umana, o in altre parole, di quella compassione che agisce come forza che nasce dalla consapevolezza di condividere la debolezza e dalla consapevolezza delle reciprocità. Le minacce alla vita umana, denunciate nell’Enciclica, possono essere lette anche nella prospettiva personale del singolo uomo e della singola donna e allora richiamano il mondo della sofferenza umana.

Una solidarietà naturalmente illuminata dalla Parola di Dio che sola può arrecare una guarigione ad una umana ferita, anche se in un cammino di fede che può essere lungo, doloroso, faticoso. Una pastorale risanatrice significa, invece, molto più compiutamente, stare insieme ai malati e ai “cosiddetti sani” in modo tale che essi imparino ad accettarsi, alla luce della grazia divina, come esseri limitati aventi difetti anche incurabili e tanti lati oscuri. Anche se non c’è più alcuna prospettiva che il corpo torni a stare meglio, si può sperare in una guarigione. Infatti per guarigione non si deve intendere solo il recupero fisico ma quella pacificazione psicologica, quel coraggio, quella forza morale che la Parola di Dio può arrecare e che permettono di non andare alla deriva anche se il corpo si sgretola. Una guarigione parziale, nella prospettiva della speranza certa che: “Nella nuova Gerusalemme” ossia nel mondo nuovo verso cui tende la storia degli uomini “non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate” (Ap 21,4). E mentre come popolo pellegrinante, popolo della vita e per la vita, camminiamo fiduciosi verso “un nuovo cielo e una nuova terra” (Ap 21,1), “volgiamo lo sguardo a Colei che è per noi ‘un segno di sicura speranza e di consolazione”(EV, 105).

Il desiderio di compiacerti

Signore mio Dio,
non ho alcuna idea di dove sto andando,
non vedo la strada che mi è innanzi,
non posso sapere con certezza dove andrà a finire.
E non conosco neppure davvero me stesso,
e il fatto che penso di seguire la tua volontà
non significa che lo stia facendo davvero.

Sono però convinto che il desiderio di compiacerti
in realtà ti compiace.
E spero di averlo in tutte le cose.
Spero di non fare mai nulla senza un tale desiderio.
E so che se agirò così
la mia volontà mi condurrà per la giusta via,
quantunque possa non saperne nulla.

Avrò però sempre fiducia in te
per quanto mi possa sembrare di essere perduto
e avvolto nell’ombra della morte.
Non avrò paura,
perché tu sei sempre con me
e non mi lascerai mai solo di fronte ai pericoli.

(Padre Thomas Merton)

Don Enzo Trinità

 

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